Federico II: un epicureo all'Inferno
Dante ammirava molto Federico II di Svevia, alla cui corte siciliana era stato dato forte impulso alla lettere, con la formazione di quell'insieme di intellettuali che avevano costituito la nota Scuola dei poeti siciliani.
Nonostante la stima nei confronti del sovrano, uomo di lettere e promotore di una corte colta e cortese, ciò non impedì però a Dante di collocarlo in quel regno dell’aldilà che più si addiceva alla condotta tenuta in vita: stiamo parlando dell’Inferno e in particolare del sesto cerchio, quello riservato agli Epicurei che l'anima col corpo morta fanno.
È attraverso Farinata degli Uberti che nel decimo canto apprendiamo il tragico destino dell'imperatore:
"Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico
e 'l Cardinale e de li altri mi taccio"
Nonostante tutto, insomma, Dante condivideva l'opinione del suo tempo, che tacciava Federico di eresia . Questo sicuramente grazie alla propaganda guelfa, e del papa in particolare, che più volte lo aveva scomunicato in seguito al mancato appoggio per le crociate. Fu Gregorio IX, soprattutto, a contribuire al suo mito negativo, dipingendolo come Anticristo e persecutore della Chiesa.
Manfredi penitente: biondo bello e sulla via del perdono
L'ammirazione di Dante si estende anche al figlio Manfredi, che però ha un destino diverso: morto nella battaglia di Benevento, del 26 febbraio 1266, in cui le truppe guelfe di Carlo d'Angiò sconfissero quelle ghibelline, Dante lo colloca nella spiaggia del Purgatorio dove, nel canto III, è lui stesso a farsi avanti:
"E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se', così andando, volgi 'l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».
Io mi volsi ver' lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso."
Quando Dante afferma di non riconoscerlo, il penitente mostra una piaga sul petto e si presenta:
"Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond' io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l'onor di Cicilia e d'Aragona,
e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice."
Dopo essere stato colpito a morte nella battaglia di Benevento, Manfredi si era pentito dei suoi peccati, chiedendo il perdono divino.
Benché graziato, essendo stato scomunicato dalla Chiesa dovrà attendere nell'Antipurgatorio un tempo trenta volte superiore a quello trascorso in vita in contumacia, a meno che i vivi non abbrevino la sua permanenza con le preghiere. Proprio per questo, Manfredi chiede a Dante di raccontare tutto alla figlia Costanza, affinché possa pregare per la sua anima.
La luce - paradisiaca - de la gran Costanza
Soltanto Costanza ha ottenuto la beatitudine celeste ed è Piccarda Donati a indicarla, alla sua destra e illuminata di luce divina:
"Quest' è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò 'l terzo e l'ultima possanza».
Piccarda spiega come Costanza fosse stata in precedenza monaca e poi costretta a sposarsi, generando dal secondo imperatore di Svevia, Enrico VI, il terzo e ultimo Federico II.
Dante di fatto dà credito alla leggenda secondo la quale il papa l'aveva fatta prelevare dal monastero di Palermo per costringerla alle nozze. Si trattava di una diceria infondata, probabilmente volta a spiegare l'età avanzata della donna (allora trentenne) al momento del matrimonio.
Insomma, tra falsi miti e leggende, Dante ci offre una visione senza dubbio interessante della casa degli Svevi e in generale, come nel caso di Manfredi, ci restituisce personaggi che in pochi versi riescono a trasmettere tutta la potenza di passioni e sentimenti provati un tempo, facendo emergere un'umanità che ci restituisce gli uomini e le donne quasi in carne e ossa.
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